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Coronavirus, portuali pronti alla rivolta: “Siamo senza protezione” / Il caso

Genova – Tira una brutta aria sulle banchine dei porti italiani. Sono una polveriera pronta ad esplodere. Una pentola a pressione senza valvola di sfiato che continua ad accumulare energia negativa, giorno dopo giorno, alimentata dall’emergenza sanitaria da Coronavirus. A raccogliere il loro grido di allarme è ShipMag che dà voce al malessere strisciante dei portuali, fino ad oggi inascoltato, che rischia di sfociare in una situazione fuori controllo. Mancano le mascherine per lavorare, non sono reperibili sul mercato, e il rischio di contagio aumenta vertiginosamente.

“Il problema è molto serio, cerchiamo di arrangiarci con le forniture che abbiamo in dotazione ma è evidente che non possiamo andare avanti così perché non riusciamo ad assicurare la sicurezza ai nostri soci”, ammette Antonio Benvenuti, console della Compagnia portuale più importante d’Italia per numero di lavoratori, circa un migliaio, che a rotazione di 4 turni ogni giorno operano sulle banchine genovesi o a bordo delle navi che arrivano e partono dal primo porto italiano.

“Siamo costretti ad utilizzare più volte le stesse mascherine, quando dovrebbero essere monouso per legge. Il problema è molto serio perché ogni giorno in porto lavorano in media 600-700 persone, in più questa emergenza è condivisa con i terminalisti che hanno i nostri stessi problemi visto che le loro forniture sono limitate. Le compagnie di navigazione legittimamente poi esigono che i portuali prima di salire a bordo di una nave vengano dotati di mascherine. Ma se non ci sono, utilizziamo quelle che abbiamo. E’ un circolo vizioso. E va bene, lo dico con grande amarezza, che invece di 9 squadre oggi ne usiamo 5 perché il traffico container è diminuito del 40%, le crociere sono state azzerate e i ferry di Tirrenia e Gnv possono trasportare solo merci e non persone”.

Parla di una “vera emergenza” Luca Grilli, presidente della Compagnia portuale di Ravenna e dell’Ancip, l’associazione che raggruppa circa 50 ex compagnie portuali tra articoli 16 e 17, 1.500 lavoratori in tutto: “Il problema riguarda tutti i porti italiani – dice -. La compagnia di Ravenna, che da sola rappresenta circa 500 lavoratori, sta provando in tutti i modi a reperire le mascherine dai suoi fornitori, vecchi e nuovi, le abbiamo chieste invano anche alla sanità locale. Siamo ridotti all’osso, laviamo quelle usate piuttosto di garantire un minimo di sicurezza. Per servire il nostro porto, siamo arrivati anche allo step successivo: dotare i lavoratori di mascherine normali – quelle che comunemente usano postini, corrieri o cittadini per fare la spesa – oppure semi facciali con evidenti problemi per l’incolumità dei portuali. Il quadro normativo non aiuta, siamo sempre in attesa di un provvedimento del governo che ci consenta di lavorare in tranquillità. In più, ogni giorno spesso ci scontriamo con un sistema logistico costituito da operatori che spesso consentono ai loro addetti di operare in una situazione di totale insicurezza”.  

E’ ancora più duro Enrico Luciani, da 16 anni presidente della Compagnia portuale di Civitavecchia, 300 lavoratori. Lui punta l’indice contro chi sta lucrando sulla pelle dei lavoratori: “In nome del profitto – accusa – vengono venduti lotti di mascherine a peso d’oro con un ricarico del 600-700%, quando ognuna di esse costa pochi centesimi. Il risultato è che oggi non si trovano sul mercato. Abbiamo avuto forniture emergenziali ricevute dalla Croce Rossa, che ringraziamo, ma sono mascherine usate dai chirurghi nelle sale operatorie. Quindi, continuiamo a lavorare in condizioni estreme sperando che arrivino forniture di mascherine idonee che ci preservino sia dal Covid-19 che dalle polveri sottili. Tutto questo si aggiunge alla situazione drammatica che sta vivendo il nostro porto: per scelte scellerate compiute in passato, Civitavecchia è stato trasformato in uno scalo quasi esclusivamente passeggeri per autostrade del mare e crociere, perdendo la sua storica vocazione basata su 3 componenti: merceologica, passeggeri ed energetica. Il problema è che oggi il traffico delle crociere e dei ferry è fermo, e i portuali sono senza lavoro. Perché la componente merceologica è quasi inesistente: alla banchina 25, l’unica dedicata ai contenitori, Msc movimenta 70-100 mila Teu l’anno quando il mercato potenziale è di un milione di Teu. E quella energetica, concentrata sul carbone, il traffico si è ridotto da 4,5 milioni di tonnellate nel 2017 a 1,8 milioni di tonnellate nel 2019, con la prospettiva di un’ulteriore riduzione di 2/3 quest’anno. Tradotto: siamo praticamente morti. Detto questo, concludo: i portuali di Civitavecchia oggi fanno i buoni per il Coronavirus, ma appena finisce tutto blocchiamo il porto!”.  

Alza la voce anche Pierpaolo Castiglione, presidente della Compagnia portuale di Napoli, 65 portuali: “Le mascherine mancano e i lavoratori sono costretti a lavorare 4-5 giorni con le stesse perché siamo impossibilitati a sostituirle. Quelle che si trovano sul mercato hanno prezzi esorbitanti, e spesso non sono nemmeno certificate. Stiamo cercando di contattare i fornitori in Italia e all’estero, addirittura in Cina. Senza successo. Il governo, fino ad oggi, non ci ha dato una mano. Nemmeno la Protezione Civile. L’unico ente che sta provando ad aiutarci è la Regione, attraverso il Consorzio unico Campania, che ha messo a disposizione 24 mila mascherine. In più, con il decreto fiscale le ex compagnie portuali escono con le ossa rotte perché il provvedimento consente agli articoli 16 e 18 di poter accedere alla Cig e di lavorare in modo flessibile, per contro mette in difficoltà gli ex articoli 17: perché se un’impresa del porto ha la possibilità ogni giorno di decidere se un proprio dipendente può essere utilizzato su una nave oppure se può essere avviato in Cig, giocoforza rinuncia alla prestazione di lavoro fornita da noi. Il problema è che oggi, per colpa del Coronavirus, il lavoro non c’è”.