Riceviamo e volentieri pubblichiamo
di Gabriele Arcangeli
Nell’intervista rilasciata al direttore sul tema del cambiare la legge sui porti, i relativi tabù, ma soprattutto nell’identificarne alcuni al fine di modificarne la natura da ente pubblico non economico a società per azioni, Edoardo Rixi si dichiara disponibile al dialogo con tutti. Accolgo da volontario l’invito, anche se la cosiddetta proposta non è sufficientemente precisa per un dialogo serio e fondato su argomenti giuridici concreti. Già che ci sono un paio di considerazioni anche sulla replica dell’on. Raffaella Paita, che solleva alcune circostanziate considerazioni, precedute tuttavia da un errore iniziale che ne pregiudica in parte il prosieguo.
Entrambi ignorano, ma preferisco pensare sorvolino sul fatto, che le società di capitali hanno personalità giuridica autonoma ma, e soprattutto, obblighi, sorte e destini indipendenti da quelli dei singoli soci. Gli amministratori, di nomina statale o municipale che siano, hanno l’obbligo di perseguire lo scopo sociale e l’interesse della società, non quelli dei soci o, peggio, del socio di maggioranza. Paradossalmente quindi, rispetto alle convinzioni di Rixi e di quelli che la pensano come lui, con la trasformazione dell’ente pubblico non economico in società per azioni, lo Stato perde il controllo diretto dei porti, affidandolo ad amministratori, più o meno indipendenti, che li gestiranno come assets propri e nell’interesse della società e non dei soci, salvo il caso in cui gli stessi coincidano.
Partiamo dai punti che ci accomunano, un sistema portuale frazionato in troppe Autorità, competenze ripartite, ma spesso sovrapposte, tra Enti disomogenei, autonomia gestionale ridotta e centralizzata in un Ministero privo di risorse qualificate, eccessiva burocratizzazione dei processi decisionali e delle procedure amministrative, difficoltà negli investimenti e nella realizzazione delle opere anche già previste dagli strumenti urbanistici. In poche parole, la necessità di una vera riforma della legge portuale che vada al di là degli asfittici obiettivi di quella di Delrio per intenderci. Aggiungo una considerazione personale, i porti gestiti dalle AdSP sono di serie A, B, C e oltre a scendere, e di questo bisogna farsene una ragione, ma hanno elementi comuni che devono essere regolati in maniera uniforme, il lavoro portuale, la trasparenza delle procedure amministrative ed il libero accesso al mercato da parte di chiunque ne abbia interesse, come minimo, poi ci sono le procedure doganali, sanitarie, di safety e security che devono essere omogenee.
Cionondimeno un metro quadrato di banchina in un terminal container a Genova non paga un canone demaniale uguale o simile a quello che si paga nella maggior parte degli altri porti, così come la concessione di una stazione marittima passeggeri a Napoli, Palermo, Civitavecchia non può essere assentita con i medesimi parametri della maggior parte degli altri porti. I porti sono diversi, hanno utenti diversi, attraggono investitori diversi, servono aree industriali e commerciali diverse, anche se in taluni casi le servono in comune. Se i porti fossero tutti uguali qualcuno mi dovrebbe spiegare perché, nonostante interventi da centinaia di milioni di euro in banchine, dragaggi, infrastrutture, alcuni porti abbiano, ormai da decenni, i piazzali vuoti e altri abbiano tassi di occupazione di banchine e piazzali superiori al 90% della capacità operativa interna e oltre il 100% della capacità operativa delle infrastrutture asservite esterne alla cinta portuale.
Bene, sperando di aver centrato almeno gli elementi comuni, non vedo la soluzione di alcuno dei problemi nella trasformazione in società per azioni a capitale pubblico. Non è dato sapere quale potrebbe essere il patrimonio delle società per azioni. Le aree demaniali attraverso la sdemanializzazione delle aree portuali? Certamente una soluzione ma, fatti salvi i diritti acquisiti dai concessionari, cambierebbe per loro solo l’IBAN sul quale versare il canone. Genova, Livorno, Napoli, Trieste, per citare i medesimi porti indicati da Rixi, hanno assegnato le aree di competenza con concessioni demaniali o con accordi sostitutivi di concessione demaniale ultradecennali, spesso per periodi talmente lunghi da perderne la vista in un normale orizzonte politico-economico. Cosa vorrebbe fare Rixi? Revocarle? Ridiscuterle sulla base del passaggio di proprietà dallo Stato a una società pubblica? Esercitarle direttamente o in joint-venture con i terminalisti? Non sentite anche voi i principali studi legali, con il sottofondo di risate soddisfatte, preparare le riunioni per gestire i proventi delle cause miliardarie? Già, tanto può valere una concessione cinquantennale di un terminal container. Troppo vaga la proposta per discuterne seriamente.
Ma parliamo un momento di attrazione degli investimenti dei privati. In questo momento il rischio-paese sugli investimenti greenfield in Italia è elevatissimo per la somma delle incertezze politica, giuridica, legislativa e giurisdizionale che l’affliggono. Il caso della Darsena Europa di Livorno, nessuna manifestazione di interesse di privati nell’investimento, i casi dei ritardi nell’esecuzione dei piani industriali contenuti negli accordi sostitutivi di concessione demaniale di Trieste, La Spezia, Taranto, Genova per citare i principali, sono tutti esempi emblematici del timore di procedure senza fine, rallentate dal primo comitato costituito spontaneamente al primo colpo di piccone per la tutela della migrazione della cozza pelosa. Per qualche strano motivo oggi molti porti funzionano, ma molti porti sono bloccati, a parità di norme l’unica differenza la possono fare gli stakeholders da un lato, gli amministratori delle AdSP dall’altro.
La prima vera riforma potrebbe essere quella di individuare presidenti corrispondenti alle figure previste nella norma e lasciarli lavorare, indirizzando da un lato gli stakeholders dall’altro facilitando loro i procedimenti amministrativi. Nel frattempo tutti quelli che si propongono di cambiare le norme possono impiegare utilmente il tempo studiandole, unitamente ai fondamentali, partendo dal fatto che prevedere il finanziamento statale di opere fredde come dragaggi e opere di protezione non è l’idea del Cappellaio Matto, ma il frutto di un ragionamento, neppure troppo complicato, di chi ha pensato che nessun privato investirebbe mai in un’opera che non prevede un ritorno economico diretto e corretto. Il fatto che il Porto di Rotterdam sia gestito da una società pubblica di proprietà al 70% dalla Municipalità di Rotterdam e al 30% dallo Stato olandese è del tutto irrilevante ai fini della riforma, ma indice dell’importanza del porto e della sua buona gestione per i destini di tutto il Paese.