La verticalizzazione della logistica, che vuol dire controllare navi, terminal portuali, treni, Tir, centri intermodali, aerei cargo spaventa molti
La politica, i partiti, sono impegnati, come i fantini, nel cercare di piazzare i cavalli nella posizione migliore dietro il canapo in attesa che il mossiere dia il via alla vera campagna elettorale.
Questa è la prima ragione per cui non abbiamo da tempo una politica industriale, un indirizzo e un governo dei processi in atto nel settore logistico. E il settore logistico, non va dimenticato, è al servizio dell’economia reale, della manifattura, delle nostre produzioni e del commercio.
La verticalizzazione della logistica, che vuol dire controllare navi, terminal portuali, treni, Tir, centri intermodali, aerei cargo spaventa molti.
Ormai, va detto con chiarezza, c’è chi è in grado di ritirare prodotti fatti in Cina e farli arrivare direttamente negli scaffali dei supermercati italiani. Quindi i primi a essere messi, forse definitivamente, in discussione sono le aziende che un tempo avremmo chiamato “utenti portuali”. Gli spedizionieri, intesi come organizzatori del trasporto, e gli agenti marittimi che non si sono evoluti.
In secondo luogo, a risentire dei processi di verticalizzazione e di governo globale del trasporto, sono le imprese isolate e di scarsa consistenza che fanno trasporto ferroviario e su gomma.
La nascita della nuova associazione del ferroviario merci ci indica precisamente la tendenza. Se Mercitalia indica nel suo piano strategico i soggetti con cui intende stabilire alleanze (guarda caso aziende legate a colossi dello shipping e della logistica come Msc) e poi con gli stessi costituisce una nuova Associazione, vuol dire che vi è una copertura di governo.
La competizione con le imprese ferroviarie private fuori da quella alleanza sarà durissima. Stessa cosa probabilmente accadrà con le imprese di autotrasporto.
Nella portualità i giochi sono ormai fatti. Siamo in dirittura d’arrivo. Il livello di concentrazione è già molto alto. Vi è stato uno scontro, durato molto poco, tra chi voleva mantenere il comma 7 dell’art. 18 della legge 84 per evitare una concentrazione di più concessioni della stessa attività (container) e tra chi voleva liberalizzare.
Quando ci si è resi conto che andava bene a tutti, la querelle è scomparsa. La verità è che non abbiamo terminalisti italiani, i pochi che ci sono, sono partecipati da stranieri, sotto forma di imprese o fondi di investimento. Fondi che hanno un limite di tempo per il loro investimento.
Questo è il problema a cui dobbiamo rispondere. Non certo inventarci imprenditori che non abbiamo più nel settore portuale. A questo punto è meglio prendere atto della realtà e andare a trattare condizioni, modalità e contropartite nell’interesse del Paese e della sua economia.
Il tema, ecco che torna la politica, riguarda il governo dei processi, le ricadute per il Paese sia dal punto di vista della competizione dei nostri prodotti sui mercati internazionali, sia sul piano occupazionale e della ricchezza che deve rimanere sul nostro territorio. In altri paesi europei si risponde all’esigenza di tutela degli interessi pubblici, facendo svolgere un ruolo allo Stato. In Francia, ad esempio, lo Stato che aveva ceduto la Compagnie Generale Maritime alla Cma della famiglia Saadé è ora socio con la stessa Cma-Cgm, terzo gruppo armatoriale container mondiale, in Air France. In Germania, invece, con la sua presenza in Deutsche Post Dhl (poste, spedizioni e logistica) lo Stato orienta il sistema a sostegno della manifattura del Paese.
In Italia niente di tutto questo: abbiamo smesso di governare i processi, di coglierne la complessità.
Il congestionamento dei porti cinesi, la ripresa del commercio, i noli marittimi alle stelle, i ritardi di mesi nelle consegne stanno mettendo in crisi aziende e interi settori produttivi. Come facciamo, ad esempio, a continuare a esportare i nostri prodotti agro-alimentari se il costo di quello che sta in un contenitore (la pasta o le conserve di pomodoro, cardini del made in Italy) è inferiore al nolo marittimo?. Parliamo di prodotti forse a non grande valore aggiunto, ma che per il nostro Paese, significano reddito e occupazione.
L’Italia può essere esposta in questo modo? Le nostre esportazioni sono fuori mercato se il nolo per gli Usa è 9 mila dollari, per l’Australia 19 mila dollari, per il Canada 12 mila. Mentre le importazioni subiscono rialzi insopportabili e colpiscono la nostra componentistica.
Negli Usa il presidente Biden ha provato a intervenire. “Quando le aziende non devono competere, i loro profitti aumentano, i prezzi salgono e le piccole imprese, gli agricoltori a conduzione familiare e gli allevatori crollano – ha affermato a febbraio Biden – Lo vediamo accadere con i vettori marittimi che spostano merci dentro e fuori gli Stati Uniti. Durante la pandemia, queste società di proprietà straniera hanno aumentato i prezzi fino al 1.000% e realizzato profitti record”.
Anche il governo italiano deve studiare compensazioni per difendere la nostra competizione sui mercati internazionali. L’esplosione dell’inflazione nel nostro Paese è dovuta anche al costo elevato del trasporto. Accompagnarla, però, con una crisi produttiva e occupazionale non è accettabile politicamente e socialmente.