Il presidente a Shipmag: “Basta con le lentezze nel realizzare opere essenziali come i dragaggi e i collegamenti ferroviari”
Roma – Dalla nuova riforma dei porti (“Serve una cabina di regia centrale che sappia traguardare gli obiettivi strategici nazionali ma tenga anche conto delle opportunità e delle esigenze dei singoli porti e relativi territori”) alle criticità della portualità italiana (“Come l’applicazione disarmonica di norme nazionali, tanto più di quelle europee, la carenza di azioni regolatorie oggi sempre più importanti in un mercato ad alta concentrazione”). Parlando con ShipMag, il presidente di Federagenti, Alessandro Santi, si sofferma anche sull’accesso delle navi da crociera a Venezia: “Il modello della città museo è fallito ed è il momento di accorgersene”.
Nel corso dell’assemblea di Federagenti il viceministro Edoardo Rixi ha ribadito che nella riforma dei porti si terrà conto sia della necessità di avere una pianificazione nazionale delle opere sia delle specificità dei territori. È una risposta che vi soddisfa?
“Il modello del sistema portuale italiano è un unicum; abbiamo cercato di dimostrarlo a Taranto evidenziando come i chilometri di coste e il numero dei porti, sommato alla vocazione produttiva e all’export, rendano quello italiano un sistema diffuso e oggi con una scarsa vocazione all’internazionalizzazione. Risulta invece strategica la capillarità della fornitura ai siti produttivi e di utilizzo delle materie prime oggi sempre più anche in rapporto alla esigenza di contenimento delle emissioni nocive in atmosfera. L’assenza di una strategia paese risulta sempre il fattore più critico per la nostra nazione ed è chiaro che questa strategia va tracciata al più presto: questa strategia è la base irrinunciabile per attuare una pianificazione delle opere (grandi e piccole); dobbiamo essere consapevoli che il modello a cui puntare può certo sfruttare esperienze esistenti in altri Paesi, ma che questo modello deve essere tutto italiano: quello che noi abbiamo chiamato Porto Italia. Ciò comporta una cabina di regia centrale che sappia traguardare gli obiettivi strategici nazionali ma tenga anche conto delle opportunità e delle esigenze dei singoli porti e relativi territori; si tratta di una missione non facile, quella di conciliare le politiche centralistiche con quelle federalistiche”.
Quali sono, oggi, le principali criticità della portualità italiana?
“Il problema centrale? La lista di queste criticità non si accorcia ormai da troppi anni e ciò significa che il sistema non attivare gli anticorpi anche se conosce la malattia. Agli onnipresenti problemi nazionali (amministrazione bizantina, sovrapposizione di competenze, sovrapproduzione legale, scarsa digitalizzazione dei processi) si sommano le specifiche criticità che sono comunque parzialmente interconnesse alle grandi tematiche di crisi: la mancanza di una strategia per la portualità, la lentezza nel realizzare opere essenziali quali i dragaggi o i collegamenti ferroviari, l’applicazione disarmonica di norme nazionali, tanto più di quelle europee, la carenza di azioni regolatorie oggi sempre più importanti in un mercato ad alta concentrazione”.
Che cosa pensa dell’attuazione del Pnrr?
“È di certo una partita complessa ma è anche una opportunità straordinaria. Ora è necessario tenere alta la guardia e selezionare i progetti davvero prioritari e strategici per non correre il rischio di perdere di vista anche gli obiettivi temporali che prevedono l’ultimazione delle opere nel 2026. Esiste poi un secondo problema che riguarda in particolare le infrastrutture di trasporto e mobilità. Una sintesi? Sopravvivere e garantire i flussi logistici di persone e di merce in presenza dei molteplici cantieri che si stanno aprendo per la realizzazione di opere”.
Una delle criticità ancora irrisolte riguarda l’accesso delle navi da crociera a Venezia: che cosa vi aspettate dal governo?
“Il governo dovrebbe riuscire a fare quello che non ha fatto dalla Costa Concordia in poi, e cioè definire un piano possibile ascoltando tutte le voci (che sono tante ed eterogenee) e non ascoltando solo quelle che determinano il più comodo consenso (internazionale). Fare bene per Venezia non significa cancellare posti di lavoro e incidere negativamente sul numero di residenti, favorendo lo sfruttamento turistico mordi e fuggi della città. Crociere (all’87% in home port come a Venezia, unico caso mediterraneo a tale livello) significa porto e significa da sempre lavoro e sostenibilità. Le scelte governative senza alternative possibili (leggasi Clini, Passera e poi Draghi) hanno determinato solo la sostituzione di un turismo di qualità organizzato e programmato con un turismo distruttivo e incontrollato che determina la perdita di posti (tanti) di lavoro, di professionalità e di competitività paese a vantaggio di altri porti adriatici, ma non italiani. Il modello della città museo è fallito ed è il momento di accorgersene”.
Molti osservatori sostengono che in Italia il dibattito sulla portualità sia ingiustamente monopolizzato dal traffico container e che si parli troppo poco di altri segmenti merceologici. Lei è d’accordo?
“La risposta è nei numeri: solo il 20% dei volumi transitanti nei nostri porti è rappresentato dai container. Le rinfuse liquide e solide la fanno da padrone. Il motivo per cui tutti si concentrano sui container è dovuto al fatto che dal punto di vista del valore dei prodotti trasportati tale percentuale diventa pari all’incirca al 60% e soprattutto perché i container sono molto legati alla capacità di mantenere il sistema degli scambi al massimo livello di globalizzazione e quindi di ‘libertà’ dei mercati. In realtà per la nostra propensione manifatturiera le materie prime in import sono determinanti per l’economia del paese. Ovviamente esistono porti con una marcata specializzazione (anche nei container) anche se in linea generale i porti che più favoriscono il mix di traffici sono meno esposti ai cicli che caratterizzano l’interscambio mondiale”.